

Nell’inferno dei barboni che occupano gli angoli bui delle metropoli, Francesca e Concetta hanno una sola risorsa, l’essere in due. Che, quando si vive nel sottobosco urbano in cui tutti sono contro tutti, non è poco. Soprattutto non è poco per loro, sorelle di 70 e 67 anni, custode ciascuna della vita dell’altra. Morirebbero se le separassero. È stata una giornalista di “Repubblica”, Gaia Giuliani, a raccontare per prima la loro storia. Siamo a Roma, alla stazione Termini. È dicembre e la Giuliani scrive delle due sorelle minacciate da un vigile urbano in congedo che lavora per il Comune (“Se non ve ne andate torno qui e do fuoco a tutto”), che dignitosamente raccolgono i rifiuti dentro un sacco e tolgono il disturbo. Non prima, però, di aver passato uno straccio imbevuto d’acqua sul marciapiede che considerano la loro casa. E poi verso l’ignoto, verso la paura. Potrebbero dormire nell’ostello della Caritas, poco distante, ma si rifiutano: alla Caritas spiegano che è normale, se sei un mendicante gli altri lo sanno, e nottetempo ti rubano i soldi che hai raccolto. Francesca e Concetta non chiedono l’elemosina, la accettano, e non sempre, solo se viene loro offerta. Lo stesso avviene per il cibo. Sono insofferenti alle regole, per una sorta di orgoglio insito nella loro natura forte e incapace di piegarsi ai colpi che la vita ha riservato loro, una dignità che le rende libere e perciò ingovernabili. Sono delle indesiderate, costantemente a rischio, non di rado attaccate da bande di altri disperati. Tra loro altri diseredati, invisibili, immigrati che si organizzano per imporre il “pizzo” anche per dei cartoni da stendere per terra. Si ribellano, sono minacciate e pestate a sangue.

Una famiglia di braccianti, lavoratori che con sacrificio costruiscono un piccolo mondo in cui vivere dignitosamente , come se ne incontrano tante guardando al passato della nostra terra. Il padre Giuseppe, nato a Milazzo il 1° ottobre 1907, coltivava da colono le terre del barone Sergio Marullo di Condojanni e, con la moglie Crocifissa Pino, nata a Milazzo il 15 febbraio 1911, si era stabilito in una casetta in riva al mare, alla Marina di Archi, che era allora una lunga distesa di sabbia finissima a due passi dalla foce del Floripotema, oltre la quale iniziavano i filari di uva zibibbo e i fitti agrumeti della valle. Una vita serena, quella di Francesca e Concetta, con i genitori e il fratello Salvatore, nato a San Filippo del Mela il 26 marzo 1949, fin quando l’industrializzazione, con l’impianto della Raffineria e dell’Enel, non li costringe ad uno sfratto forzato, prima a Torregrotta e poi a Pace del Mela. Profughi dell’industrializzazione. Nel frattempo, una serie di eventi sfortunati mina la stabilità del nucleo familiare: prima la morte della madre Crocifissa e poi quella di Salvatore, che muore annegato a soli 26 anni. Infine la morte del padre, travolto da un’auto sulla statale 113 tre anni dopo, nel 1978, priva Francesca e Concetta dell’ultimo affetto rimasto. Si salvano per miracolo dall’alluvione che nello stesso anno causa lo straripamento del torrente Muto, ma restano senza casa. Disperate e senza più nulla, una notte salgono su un treno verso Messina, si fermano alla stazione ma, raccontano, un poliziotto aggredisce a calci Francesca, che finisce all’ospedale con una coscia gravemente ferita. Da allora zoppica ancora. Le avvistano per qualche tempo nella zona della stazione e del porto, infine fuggono anche da lì. Risultano irreperibili al censimento del 1981. Hanno già iniziato l’inferno della vita da clochard a Roma.
La loro storia è stata ripresa dalla stampa locale. Il giornalista Mario Di Paola sulla "Gazzetta del Sud" ha raccolto l’appello lanciato da Roma: i paesi d’origine “riadottino” le sorelle Andaloro. L’appello è rivolto ai sindaci del distretto socio-sanitario, perché trovino un alloggio che accolga queste due nostre compaesane prive dei mezzi più elementari per affrontare ciò che resta loro della vecchiaia. È stata la cooperativa “Obiettivo Salute e Lavoro” di Milazzo a dare per prima la disponibilità ad ospitarle e assisterle. Le generalità di Francesca e Concetta sono state fornite da Mimmo Cirino alle istituzioni romane che possano ricondurle tra i cittadini italiani in qualche modo “visibili”: la Caritas, il comune, la Comunità di Sant’Egidio. Nella capitale, la giornalista Gaia Giuliani ha trovato la disponibilità della “Casa dei diritti sociali” per la fornitura della carta d’identità e per l’avvio della pratica di pensione. Resta da trovare un luogo dove finalmente le due sorelle possano smettere i panni di “barbone”. Nell’attesa che qualcosa si muova, rischiano di morire ogni giorno.