sabato 27 febbraio 2010

Dove eravamo rimasti?

Ebbene sì, è vero, lo ammetto. A volte perdo l’entusiasmo. Quantunque io ami il mio lavoro, non posso fare a meno di avvertire la stanchezza. Talvolta, almeno. Scrivo da quasi dieci anni, da quattro sono iscritta all’ordine dei giornalisti. Non soffro la fatica, sopporto bene i ritmi intensi, posso perdere anche tante ore di sonno e continuare a lavorare. Sono combattiva, non mi arrendo e non mi spavento di nulla. Viaggio. Faccio tante cose. Forse se facessi solo la giornalista sarei una bravissima giornalista. Ma la mia natura è eclettica e seguo con la stessa passione attività diversissime. Che mi consentono di sopravvivere nella giungla asfissiante del precariato districandomi con un certo successo tra le liane dei contratti e dei rapporti di lavoro a tempo e soddisfano la mia voglia di imparare. Il mio desiderio di crescere, sebbene a ventisei anni io mi senta già piuttosto vecchia. Le mie spalle sono robuste, ma oppresse. Chi pensa che il giornalismo sia un mestiere affascinante si sbaglia. L’amarezza di solito non mi appartiene, sono una persona estremamente, troppo sensibile, ma nel lavoro devo armarmi sino ai denti a costo di sembrare dura e aggressiva – ma, giuro, non lo sono. E non basta. Però sono, sempre, buona, onesta, corretta. E soprattutto libera. Non è facile, ma è così che cerco di fare il mio mestiere. Il destino di chi svolge qualunque ruolo che abbia, in qualche modo, a che vedere con la sfera pubblica è quello di essere attaccato, crocifisso, squartato. È fatale. Scrivo perché mi piace e non potrei fare altrimenti. Non ho mai smesso di credere che confrontarsi è il primo passo per smuovere anche un minimo cambiamento culturale. Credo nella capacità di fare comunità e agire. Ma a volte, consentitemi di sentirmi stanca. Di sentirmi come se fossi in una sala anatomica dove le mie parole sono soppesate, una per una, dove io stessa sono analizzata al microscopio. Detto questo, aggiorniamo il blog.

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