di Rosario Torre
Origine e significato del Carnevale
Il termine Carnevale (da carnem levare, “toglier
la carne”, riferito in origine al primo giorno di Quaresima) corrispondeva
anticamente al periodo di tempo festivo tra il Natale e la Quaresima. Dovrebbe
iniziare dal giorno di Santo Stefano ma in pratica lo si fa cominciare il 17
gennaio (giorno di Sant’Antonio Abate) oppure da quello che segue alla
Purificazione di Maria Santissima (o Candelora o Presentazione di Gesù al
Tempio; 2 febbraio). Spesso la festa si limita agli ultimi tre giorni, o
addirittura al “martedì grasso” [Raffaele Corso, Carnevale, 1931].
In generale,
il Carnevale porta con sé l’eredità culturale dei Saturnali romani ma se ne discosta per i caratteri purificatori
attribuiti al mese in cui esso veniva solitamente celebrato, ovvero febbraio (dal latino februare, “purificare”). Nel periodo Medievale e nel Rinascimento, il
Carnevale subì notevoli trasformazioni, diventando sempre meno lussurioso. Il
Carnevale, da un lato, rappresenta in modo simbolico il Capodanno, dove si
celebra la morte dell’anno vecchio (la fine dell’inverno) e l’inizio dell’anno
nuovo (primavera), dall’altro invece un modo per esorcizzare la morte
attraverso il riso e lo sberleffo [Giuseppe Donatacci, Ricerca etnografica in Capitanata: il Carnevale, 2012].
Il Carnevale negli antichi
documenti di Santa Lucia del Mela
Il Carnevale
in Sicilia presenta molti punti in comune con il rito celebrato in Calabria
[Apollo Lumini, Le Farse di Carnevale in
Calabria e Sicilia, 1888] o in altre regioni meridionali, come l’Abruzzo, la
Puglia e la Basilicata. Il documento più antico in cui viene citato il
Carnevale siciliano è un’Ordinanza del Capitan Giustiziere della Città di
Palermo, datata 1° febbraio 1499, in cui veniva vietato di “giocare a Carnalivari con arangi, acqua e
altro modo …” [Giuseppe Pitrè, Il
Carnevale in Sicilia, 1892].
Poco
conosciute sono le origini del Carnevale di Santa Lucia del Mela. Probabilmente,
in origine, anche a Santa Lucia del Mela l’ultima sera di Carnevale,
avvicinandosi la mezzanotte, un omaccione (Carnevale;
Nannu, in molte zone siciliane), che aveva beneficiato di un breve
periodo di consumo smodato di cibi e bevande, moriva, veniva disteso sul cataletto e accompagnato da un corteo
funebre. Questo era attorniato da strepiti generali e dai pianti delle “cianci
morti” (le prefiche, con il
loro caratteristico pianto funebre detto rèpitu,
trìulu o trìulata) e si concludeva con il rogo del fantoccio carnevalesco [Sergio Bonanzinga e Mario Sarica
(a cura di), Tempo di Carnevale. Pratiche
e contesti tradizionali in Sicilia, 2003].
In
molti documenti custoditi nell’Archivio Storico Comunale sono presenti diverse notizie
su questa festività popolare. I riferimenti maggiori riguardano soprattutto le
imposte da pagare ai Giurati, per le quali gli allevatori dovevano rinunciare a
parte del proprio bestiame, proprio durante il Carnevale (in questo caso “la
carne da togliere” erano gli animali sacrificati ai governanti).
Il
documento più antico che è stato analizzato, in cui viene nominata la festività
del Carnevale, è il “Registro de’ Mandati - Città 1585-1586. Costituzioni”, tra
i quali emerge un atto del 20 novembre 1585.
In esso si stabilisce che: “tutti li
patronj di capri (capre) digiano
portarj le imposti dili chiaurellj (ciareddi = capretti) in questo Carnjlivàrj ad ragioni di dechj
per cento (10%) et quelli vindiri ad
rotulo a li metj dati et che daranno essi Magnifici Iurati …”. La stessa
cosa valeva anche per “tutti patronj di
porchj (maiali) che digiano fari le
imposti di festa duranti cotesto di Carnilivari ad ragio di chjnco per cento (5%) et cussi li patrunj crastatj (castrati
= agnelli) hagiano di fari le imposti di
Carnjluari ad ragionj di dechj per cento (10%) et quelli vindiri a rotulo a le meti dati essi daranno per essi
Magnifici Iurati …”.
Il
Bando del 20 dicembre 1610 conferma
per i “patronj di crapj le imposti di
chiaurelli in questo Carnilivarj a ragione di dieci per cento (10%)”,
mentre inverte quanto dovuto dai “patronj
di porci” che dovevano “farj
l’impostj ogni festa di Carnilivarj a ragione di dieci per cento (10%)” e
dai “patronj di castratj” che
dovevano “fari l’imposterj lo Carnjlivarj
a ragione di cinco per cento (5%)”.
I
successivi Bandi Ordinari della Città di Santa Lucia confermano le stesse
imposte dovute da parte dei possessori cittadini e forestieri ai Giurati in
occasione della “Festa di Carnovale”.
Il
Bando Ordinario (27 maggio 1742) deliberava che “li padroni delli crapi e pecore ed altri animali d’armento, siano
tenuti portare l’imposti, cioè li padroni di crapi, e pecori, a Natale e
Carnevale e Pasqua, a ragione di dieci per cento, e quelli padroni delle vacche
a Carnevale e Pentecoste a ragione di cinque per cento e questi vendere a
rotolo alli meti saranno dati, et anco alle somme e quantità si stari a
giuramento delli suddetti …”.
Il
Bando Ordinario (9 giugno 1785), infine, stabiliva che “nel tempo di Carnavale” la stessa imposta dovesse essere
corrisposta anche dai possessori delle capre
a Carnevale e Pasqua (sempre nella misura del 10%), nonché dai proprietari
delle vacche inutili a Carnevale e
Pentecoste (nella misura del 5%).
Informazioni
interessanti sulla ritualità, invece, possono essere desunte da un Regolamento di Polizia Urbana e Rurale della
Città di Santa Lucia (30 luglio 1843),
ove si dedicano al Carnevale ben 5 articoli.
Tralasciando
le ammende, questi sono i punti salienti:
·
Ne’ tempi, e giorni ne’ quali son permesse le
maschere dopo le ore ventiquattro nessun potrà girare mascherato nel Comune
laddove l’autorità competente non avrà motivo a vietarlo, potranno di notte girare
con abiti da maschera, ma col volto scoperto, e forniti di lume, ed in tal caso
niuno potrà intromettersi con maschera in volto in qualunque abitazione, a meno
ché uno della compagnia non si renda responsabile dei compagni, facendosi
riconoscere dal padrone di casa.
·
Le maschere anche nei giorni, e nelle ore permesse,
non dovranno insolentire, oltraggiare per mesto di brio alcuna persona, e
dovranno anche tenersi lontane dalle Chiese aperte, ove si predica, o si
esercita qualche uffizio di religione.
·
Le maschere non potranno indossare abiti di Ministri
della Religione, di Magistrati, di funzionari pubblici, e di militari, usare
maschere mostruose, e ributtanti.
·
È vietato alle maschere, ed a chicchessia di buttare
sulle persone, o alla direzione delle finestre, e balconi, arangi, o altri
corpi duri, o pure cenere, e crusca, e tutt’altro, che potessero offendere le
persone. Si permette il solo uso di confetti, purché venghino gettati con
decenza, ed in un modo di non recare danno, o offendere le persone.
·
Non son permesse le maschere così dette concertate,
composte di molte persone, se non previa la licenza d’accordarsi dall’autorità
di polizia in iscritto.
Da
rimarcare il fatto che fosse permesso lanciare confetti in pubblico e che,
evidentemente, ci fossero stati, tanto da vietarli espressamente, episodi
spiacevoli di lancio di cenere, crusca e persino di arance (certamente di
portata inferiore rispetto al celeberrimo Carnevale Storico di Ivrea e alla
“Battaglia delle arance” che tuttora si rievoca).
“U Catalettu” e le altre tradizioni popolari luciesi: testimonianze
Nel
periodo della Seconda Guerra Mondiale, intorno
al 1940, una caratteristica particolare della sfilata era la presenza di un
carro che rappresentava un cavallo di legno con andatura claudicante.
Tale struttura, che portava delle campanelle, veniva manovrata dal suo interno
da un ragazzo e personificava il Carnevale.
Immagine tratta dalla Locandina della Manifestazione “Ritorna dopo 40 anni … U Catalettu – Il Carnevale Storico Luciese”, Santa Lucia del Mela, Martedì 12 febbraio 2013 [Disegno di Santo Arizzi]. |
Durante
il Carnevale del 1951, la sfilata
assunse il carattere burlesco con atti di scherno persino personali, dovuti a
un dissidio privato tra due dei più fervidi organizzatori.
Si
trattava di Peppe detto Mannarinu
(Giuseppe Interisano, detto “Mandarino” per una grossa cisti sulla nuca, un ex
carabiniere in pensione) e Mastru
Puliciotto (il sarto Santino Lombardo).
Al
di sopra di un baldacchino, posto su un motocarro, fu portato un pupazzo
vestito di carabiniere (caricatura di Mannarinu,
con il frac della divisa con un’ala tagliata e con un vero mandarino posto sul
collo), cucito e preparato dal sarto Lombardo.
Al
di sopra di un asino fu portato un pupazzo che rappresentava il sarto,
preparato dall’ex carabiniere che lo accompagnava con frasi di scherno per il
lavoro del sarto che a dir suo non era capace di cucirsi nemmeno una coppola
(berretta).
In
questa occasione la sfilata partì dalle case dei due personaggi, ovvero dalla
zona di Via Facciata, per passare dalla Chiesa dell’Annunziata e dalla
Cattedrale. Il Percorso prese il via intorno alle 17:00 e si concluse intorno
alle 20:00 quando il pupazzo di Mannarinu
venne bruciato, poiché in tale occasione doveva rappresentare il Carnevale e la
sua fine.
Dopo il 1955
la sfilata (corteo funebre goliardico) si svolgeva il martedì di Carnevale e
partiva alle 15:00 per concludersi intorno alle 18:00. Il percorso passava da
Piazza Milite Ignoto, Piazza Margherita (già Piazza Borgo), Chiesa
dell’Annunziata, Cattedrale, per ritornare in Piazza Milite Ignoto.
L’atto
iniziale si svolgeva in Piazza Milite Ignoto (Martedì Grasso) e consisteva nel Processo
a Carnevale che veniva condannato da un Giudice per aver mangiato
troppo (ingordigia). Così Carnevale doveva subire un intervento chirurgico per
accorciargli l’intestino: un Dottore simulava l’operazione
fingendo di tirargli fuori le interiora rappresentate dalla salsiccia. Ma
purtroppo Carnevale moriva e doveva essere portato via con il Catalettu.
Fino al 1972,
nell’ultimo giorno di Carnevale (Martedì Grasso), un finto corteo funebre (“Catalettu”)
partiva intorno alle 23:00 (a volte, persino a mezzanotte) da Piazza Regina
Margherita (già Piazza Borgo), arrivava alla Cattedrale e giungeva infine a
Piazza Milite Ignoto, dove si concludeva intorno alle ore 00:30. In diverse
occasioni, inoltre, il percorso del corteo partiva dalla Cattedrale e ritornava
alla stessa.
Il
caratteristico “Catalettu” si svolgeva tramite una finta barella composta da
due persone che tenevano una scala con un fantoccio avvolto da un lenzuolo bianco
(che rappresentava il corpo del Carnevale morto). Alla fine della scala (del Catalettu) emergeva la testa di un
personaggio che simboleggiava il Carnevale morto: si trattava di una
persona vera che teneva in bocca una fraviola (il dolce con farcitura di
ricotta tipico del periodo di Carnevale).
Seguivano
delle donne anziane (in realtà si trattava di uomini vestiti da donna) che
piangevano il Carnevale che morto: le cosiddette Cianci motto (Piangi
morto).
Poi
vi era il Prete (o il Vescovo) accompagnato da un Sagrestano
che portava un secchio pieno di acqua e una scopa di ginestra con la quale
venivano benedetti (o meglio letteralmente bagnati) coloro che assistevano alla
sfilata di carnevale.
Alcuni figuranti indossavano “u
babbaianni”: una piccola spugna che veniva legata in vita con un laccio
o un elastico. Questa era impregnata di farina o borotalco, posti all’interno
di un sacchetto anch’esso legato in vita, e veniva gettata sugli abiti degli
spettatori del corteo.
La
sfilata era accompagnata da Musicanti che suonavano spesso la
chitarra.
Intorno
alle ore 00:30, raggiunta Piazza Milite Ignoto (o la Cattedrale), veniva
bruciato un pupazzo di Cannaluari (rogo di Carnevale): finiva così, con
la morte, il Carnevale. Successivamente le campane della Cattedrale (“u
Campanazzu”) venivano suonate a morto (mortorio): era il caratteristico
Suono del Cento, ovvero il suono di 100 rintocchi lamentosi.
In
alcune edizioni che si concludevano in Piazza Milite Ignoto, si
bruciava un Fantoccio che rappresentava Carnevale, venivano accese le
ruote e le fiaccole per i giochi d’artificio e si bandiva una
tavola per la “schiticchiata”, lo spuntino con dolci e cibi salati.
In
alcuni casi, il Catalettu era, invece, seguito dal Carnevale moribondo (un
personaggio ciondolante che camminava con una fraviola in bocca) che, durante
una delle soste lungo il percorso della sfilata, subiva un intervento chirurgico per
accorciargli l’intestino: un Dottore simulava l’operazione
fingendo di tirargli fuori le interiora rappresentate dalla salsiccia.
Un
altro aspetto caratteristico del periodo di Carnevale era anche il fatto che
fino all’ultimo giorno di Carnevale si
ballava di sera in diverse case private. Qui ci si presentava mascherati e
una volta riconosciuti dai proprietari si poteva accedere e ballare.
Una
ricorrenza molto sentita erano i Veglioni
di Carnevale che si svolgevano solitamente dentro grandi sale: Cinema Apollo, Sala Olimpia, Villa Rosa.
Qui si eleggevano le ragazze più belle, tramite concorsi alquanto coinvolgenti
che portavano i titoli di “Reginetta dell’Anno” o “Miss
Santa Lucia del Mela”, mentre meno frequenti erano le elezioni di “Miss
Simpatia”, “Miss Eleganza”, “Miss Charme”, “Miss Polisportiva”
(elette soltanto in alcune edizioni). Tra i vari organizzatori si distinsero:
il “Circolo Culturale Antonio Scoppa”
(fondato nel 1965) e il “Club Amici”.
Estratto di un articolo pubblicato dalla Gazzetta del Sud (domenica 15 febbraio 1970, pag. 6). |
Inoltre, tra le persone mascherate vi era la presenza di due coppie, marito e moglie, che rappresentavano un altro tipico momento del Carnevale luciese: il cosiddetto “Sposaliziu”. Esso consisteva in una caratteristica sceneggiata farsesca di un finto matrimonio tra Carnevale e un uomo vestito da donna (di solito veniva celebrato la domenica di Carnevale).
Dal 1972 al 1977 le edizioni del Catalettu furono effettuate in maniera meno sfarzosa e coinvolgendo soltanto la parte bassa del Paese. Alcuni scherzi pesanti ed episodi spiacevoli portarono al definitivo abbandono del Catalettu, lasciando spazio alle edizioni in cui furono introdotte le forme più “commerciali e comuni” del Carnevale nazionale.
Tra i più importanti organizzatori del Catalettu si distinsero: il Sig. Salvatore Burrascano, detto Titta; il figlio del suddetto, già Ragioniere e Sindaco, Gaetano (Tanino) Burrascano; il Prof. Pasquale Ricca; il Sig. Antonino Sciotto.
Dal 1972 al 1977 le edizioni del Catalettu furono effettuate in maniera meno sfarzosa e coinvolgendo soltanto la parte bassa del Paese. Alcuni scherzi pesanti ed episodi spiacevoli portarono al definitivo abbandono del Catalettu, lasciando spazio alle edizioni in cui furono introdotte le forme più “commerciali e comuni” del Carnevale nazionale.
Tra i più importanti organizzatori del Catalettu si distinsero: il Sig. Salvatore Burrascano, detto Titta; il figlio del suddetto, già Ragioniere e Sindaco, Gaetano (Tanino) Burrascano; il Prof. Pasquale Ricca; il Sig. Antonino Sciotto.
Da
notare che nelle rappresentazioni teatrali, nei giochi e, in generale, in ogni
forma di manifestazione ludica, i figuranti erano spesso uomini, persino nelle
parti pertinenti alle donne (uomini vestiti e truccati da donna), e questo si
protrasse fino al 1975.
Il
Carnevale tipico luciese, i cosiddetti “Maschiri loddi” (poiché si
riutilizzavano i vestiti popolari e non erano impiegati costumi preparati ad
hoc), si protrasse fino al 1977 e poi assunse un carattere molto più
commerciale, con i vestiti delle maschere italiane più note e con il
coinvolgimento anche dei bambini e delle loro famiglie.
L’unica
testimonianza scritta del Catalettu, nonché descrizione
eccellente in dialetto luciese, è quella pubblicata dal Prof. Mimmo Cirino (Salappa ed altri racconti della Valle del
Mela, Santa Lucia del Mela, a cura dell’Associazione Culturale Piccolo
Teatro, 1983):
«U’ Càtalèttu nèsci à mènzanòtti e fa ù gìru
d’ù paìsi. Caminanu avànti ì piccirìddi di màschira vistùti, ‘cù tòrci e
tricchi / tràcchi. Quàttru màscaràti tènunu ì pizza d’ùn linzòlu ntà nà mànu e
‘cù l’autra jèttanu pubbirìgghia chi pìgghianu ntà ‘nà sàcchìna c’hànnu
davànti; n’àutri dùi surrèggiunu nà scàla; ntò mènzu, d’ùn pùrtùsu ntò linzòlu
jàncu, nèsci à tèsta di Pèppi ù mòttu. Hjàvi davànti ùn pìattu di fràviòli e ù
càpubànna cì fùdda ntà bbùcca. P’àccussì ddà fàcci jànca dù bàrbirèddu mòtt’ ì
fàmi pìgghia culùri sùtt’ à farina chi ci jèttanu di sùpra. Arrèri vènunu nà
manìata di màrpagghiùni, chi s’hànn’ àsciàlàtu ntà mègghiu sàla e ad ògni
càntunèra cì fànnu ù prùcessu e cì càntunu ù mìsarèri.».
Lo
stesso autore ci ricorda che il Carnevale luciese iniziasse per la Festa di San Biagio (3 febbraio), con
le numerose serate di ballo. Noto è il detto: «Ppì Sàn Bràsi, Càrnalivàri tràsi».
Da
ricordare, inoltre, che il termine Catalettu è spesso associato alla “Vara
del Cristo Morto” nella Processione del Venerdì Santo o alla “barella” che
serviva per trasportare il morto o l’ammalato. Caratteristico è il proverbio
siciliano: “lu Catalettu fa acquistari
intellettu” [Antonino Traina, Nuovo
Vocabolario Siciliano - Italiano, 1868].
Il
“Catalettu”, spesso organizzato dalle
persone più abbienti, non era l’unica manifestazione popolare luciese. Una
consuetudine fu anche quella che si perpetuò fino al 1982, soprattutto nella parte bassa del Paese (tra la
Piazza Milite Ignoto e la Contrada Serri), ovvero dei Pupazzi di Carnevale
abbandonati dietro le porte delle case (e in alcuni casi anche sui balconi)
nella notte del Martedì Grasso. Chi si svegliava, il Mercoledì delle Ceneri,
con tale fantoccio dietro la propria abitazione veniva schernito per tutto
l’anno. In molti casi i fantocci furono più di uno.
Il
Carnevale a Santa Lucia del Mela, spesso, veniva persino considerato come la
“vera festa” per il popolo, ove il ballo e il cibo erano i protagonisti.
Successivamente,
le sfilate e i concorsi in maschera per
bambini, solitamente tenuti nella Chiesa di Santa Maria dell’Arco,
divennero le nuove rappresentazioni del Carnevale luciese.
Inoltre,
tipiche espressioni del passato erano quelle che seguivano al Mercoledì delle Ceneri (ovvero il
giorno dopo la fine di Carnevale) quando non si doveva “cammariari”, cioè “non si
potevano mangiare cibi grassi o carne”, e non si potevano fare scherzi, come
ricordato da un antico detto locale: “Lécina,
non schizzari cchiù chi è Quoraesima!” (si diceva a una “persona insistente
che non deve scherzare più poiché si è entrati nel periodo di Quaresima”).
Fonti:
Testimonianza di Franco Ragusa di anni 87 nel 2011; Testimonianza di Angelo
Abbriano di anni 73 nel 2011; Testimonianza di Giuseppe Teatino di anni 100 nel
2012; Testimonianza di Giuseppa Carauddo di anni 82 nel 2012; Testimonianza di Salvatore
Impalà di anni 82 nel 2012.
Esempi di Manifestazioni
carnevalesche correlate
Altre
rappresentazioni recenti del Carnevale con il “Catalettu”, simili a
quello di Santa Lucia del Mela, sono
state realizzate in alcuni quartieri di Messina
e nell’Oratorio dei Salesiani (Chiesa di San Giovanni Bosco) di Barcellona Pozzo di Gotto.
Attualmente
in Calabria, nel centro di San
Costantino (frazione del Comune di Briatico,
in Provincia di Vibo Valentia), si rievoca l’antica tradizione del Processo, del Catalettu e del Rogo di
Carnevale, proprio durante la serata del Martedì Grasso (fine del Carnevale
e inizio della Quaresima). Nel 2007, infatti, è stato recuperato (tramite l’Associazione Culturale Eleutherìa) il
Carnevale di San Costantino di Briatico, dopo un’interruzione avvenuta nel
1949. Il rito è stato arricchito dalla messa in scena della farsa “U processu a Carnalavari”, liberamente
tratta dal poemetto in vernacolo del 1930 dal titolo “Discurzu a Carnalavari” di Grazioso Garrì (autore del poemetto
curato dal figlio Giuseppe Garrì).
“In
questa comunità tutti gli elementi teatrali e simbolici non fanno altro che
evidenziare la condizione sociale del gruppo, gli aspetti rituali legati al
mondo arcaico e agropastorale di propiziazione, di difesa del territorio e del
raccolto, degli animali e anche di una sorta di difesa ed eliminazione del male
attraverso forme apotropaiche di gestualità rituale. A San Costantino il mesto corteo
di bianchi confratelli incappucciati, che a tratti è diventato festoso, ha
segnato al buio, con la sua ambigua e irreale presenza, tutto il territorio
paesano attraverso un itinerario, tra le vie, nelle piazze, nei vicoli dove la
farsa, l’elogio, il lamento funebre ha esorcizzato e protetto mentre un uomo
incappucciato di nero bandiva un infuocato incensiere fumante di vapori di
peperoncini piccanti incendiati.” [Franco Vallone, La farsa di Carnevale a San
Costantino di Briatico. Una tradizione
recuperata dagli anni Trenta, 2008].
Inoltre,
un documento storico molto importante è rappresentato dal documentario in 16
millimetri colore, “La morte di Carnevale”,
realizzato dall’etnologo Vito Teti nel 1979 (con la collaborazione scientifica
dell’antropologo briaticese Luigi Maria Lombardi Satriani) per la sede
calabrese di Rai Tre. Nel paese di San
Nicola da Crissa, sempre nel vibonese, viene ripresa la festa come spazio
della protesta, della denuncia sociale, del ribaltamento dei ruoli. “I temi della fame e dell’abbondanza
alimentare, della morte per fame e per eccesso alimentare. La farsa come forma
di teatro popolare e il corteo funebre come tentativo di controllo rituale del
paese. Il riso che esorcizza e annulla la morte; il pianto come parodia della liturgia
ecclesiastica; le maschere e i simboli propiziatori; il fantoccio bruciato come
capro espiatorio e autopurificazione della comunità. Protagonisti sono gli
emigranti e giovani, i quali si accostano alla tradizione recuperandola e
modificandola.” [Gianfranco Donadio, La
morte di Carnevale, 2011].
La
Calabria e soprattutto i suoi centri agricoli e montani rispecchiano la stessa
tradizione del Carnevale celebrato negli altri paesi meridionali e siciliani.
In molte località veniva ammazzato il maiale, venivano consumati i prodotti che
da esso si ricavavano, e colui che raffigurava Carnevale era solito
accaparrarsi di tutto il cibo e delle bevande a disposizione. Successivamente
era processato da un tribunale, condannato e arso vivo per espiare le sue colpe
[Raffaele Ranieri, Antiche tradizioni che
vanno scomparendo. Don Carnevale in Calabria, Gazzetta del Sud, sabato 19
febbraio 1977].
Persino
alcune strofe della celebre canzone sul Carnevale, del cantastorie calabrese Otello Profazio, risultano essere
presenti nella tradizione di Santa Lucia del Mela: “Carnalivari murìu di notti e lassàu quattru ricotti, ddu frischi e ddu
salati, pi li fimmini maritati … ddu frischi e ddu stantivi pi li povari
cattivi; ddu frischi e ddu nchianati pi li povari carciarati … Cannalivari di
ccà passàu e a nissunu cunsulàu …” [notizia fornita dal Prof. Mimmo Cirino
di Santa Lucia del Mela].
“Cannaluvarata” di Angelo Sfacteria (AA.VV., 6° Carnevale Messinese - Suppl. al n. 34 di Panorama, 23 marzo 1960). |
Il
Territorio di Milazzo, nello specifico la Città, è inoltre associato a un
curioso stramotto (poesia popolare carnascialesca), composto da Mastro
Natale Lo Gatto e recitato durante il Carnevale di Chiaramonte Gulfi (RG) nel 1667, in cui venivano dati appellativi
di scherno a numerosi centri abitati della Sicilia: i milazzesi erano chiamati
“mancia surci” (mangia topi; in
realtà sembra che alcuni mangiassero i cagnolini) [Serafino Amabile Guastella, L’antico Carnevale della Contea di Modica,
1973].
Idee per la valorizzazione del
Carnevale luciese
Certi di aver perso
irrimediabilmente numerose notizie sulle tradizioni popolari, si è sempre più
consapevoli dell’importanza della conservazione
della memoria storica per conoscere gli eventi di un passato in cui bastava
poco per divertirsi, fatto di sacrifici e privazioni, nel quale il Carnevale
spesso rappresentava l’unico periodo in cui era possibile poter mettere da
parte le proprie preoccupazioni quotidiane e persino lo “status sociale” di
appartenenza, nonostante in molti casi vi fossero diversi modi per festeggiare.
Conoscere le feste e le
tradizioni di un popolo, conservarle e tramandarle, diventa per noi la vera
scommessa per il presente, nel quale a volte non occorre necessariamente
“inventarsi la ricorrenza” ma riscoprire le proprie radici, saper ascoltare chi
ci ha preceduti e rispettare con orgoglio determinate ritualità.
Il Carnevale Storico di Santa Lucia del Mela (“U Catalettu”) potrebbe
essere considerato tra i Beni Culturali Immateriali della Regione
Siciliana, che sono così definiti: “le pratiche, le rappresentazioni,
le espressioni, le conoscenze, le abilità – così come gli strumenti, gli
oggetti, gli artefatti e gli spazi culturali ad essi associati – che comunità,
gruppi e, in certi casi, individui riconoscono come parte del loro patrimonio
culturale. Questo patrimonio culturale, trasmesso di generazione in
generazione, è costantemente rigenerato da comunità e gruppi in risposta al
loro ambiente, alla loro interazione con la natura e la loro storia, e procura
loro un senso di identità e continuità, promuovendo così rispetto per la
diversità culturale e la creatività umana”.
Lo
stesso Carnevale luciese potrebbe, quindi, essere incluso tra i Carnevali Storici più importanti della
Sicilia [Biagio Bonanno (a cura di), La
festa delle identità. Carnevali Storici di Sicilia, 2006]. Attualmente, in
Provincia di Messina, risultano essere molto caratteristici e suggestivi le
seguenti rievocazioni storiche: Novara
di Sicilia (con il tipico “Gioco del
Maiorchino” e la “Lenzuolata”), Rodì Milici (“I Mesi dell’Anno”), Cattafi -
San Filippo del Mela (“U Scacciuni”),
Saponara (“La Sfilata dell’Orso e della Corte Principesca”).
Senza
azzardare sogni utopistici, il Carnevale luciese potrebbe essere considerato,
per la sua tradizione e per la sua rilevanza storico-culturale da
salvaguardare, tra i Capolavori del
Patrimonio Orale e Immateriale dell’Umanità (UNESCO), dopo l’alto
riconoscimento della Commissione
Nazionale UNESCO del Ministero degli Affari Esteri (secondo un’ipotesi avanzata dal Prof. Mimmo Cirino di Santa Lucia del Mela). Essa si occupa di “favorire
i governi locali e le agenzie non governative a identificare, salvaguardare,
promuovere e valorizzare il proprio Patrimonio Culturale Immateriale, così come
le comunità e i gruppi a farsi compartecipi della gestione e della salvaguardia”.
Le Proclamazioni della Commissione hanno interessato “peculiari espressioni
culturali, come i carnevali, i
canti, le forme di teatro e gli spazi culturali nei quali avvengono attività
come i mercati, gli scambi, i riti, gli eventi festivi”.
Sarebbe
un onore riuscire a ottenere il riconoscimento tra i Capolavori italiani del
Patrimonio Orale e Immateriale dell’Umanità, tra i quali attualmente ci sono Beni
Culturali Immateriali di grandissima rilevanza nazionale: Il teatro delle
Marionette Siciliane. Opera dei Pupi (iscritto il 18 maggio 2001) e il
Canto a Tenore dei Pastori del centro della Barbagia (iscritto il 25
novembre 2005).
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