domenica 3 febbraio 2013

Il Carnevale di Santa Lucia del Mela: una storia lunga oltre quattro secoli


di Rosario Torre

Origine e significato del Carnevale

Il termine Carnevale (da carnem levare, “toglier la carne”, riferito in origine al primo giorno di Quaresima) corrispondeva anticamente al periodo di tempo festivo tra il Natale e la Quaresima. Dovrebbe iniziare dal giorno di Santo Stefano ma in pratica lo si fa cominciare il 17 gennaio (giorno di Sant’Antonio Abate) oppure da quello che segue alla Purificazione di Maria Santissima (o Candelora o Presentazione di Gesù al Tempio; 2 febbraio). Spesso la festa si limita agli ultimi tre giorni, o addirittura al “martedì grasso” [Raffaele Corso, Carnevale, 1931].
In generale, il Carnevale porta con sé l’eredità culturale dei Saturnali romani ma se ne discosta per i caratteri purificatori attribuiti al mese in cui esso veniva solitamente celebrato, ovvero febbraio (dal latino februare, “purificare”). Nel periodo Medievale e nel Rinascimento, il Carnevale subì notevoli trasformazioni, diventando sempre meno lussurioso. Il Carnevale, da un lato, rappresenta in modo simbolico il Capodanno, dove si celebra la morte dell’anno vecchio (la fine dell’inverno) e l’inizio dell’anno nuovo (primavera), dall’altro invece un modo per esorcizzare la morte attraverso il riso e lo sberleffo [Giuseppe Donatacci, Ricerca etnografica in Capitanata: il Carnevale, 2012].

Il Carnevale negli antichi documenti di Santa Lucia del Mela

Il Carnevale in Sicilia presenta molti punti in comune con il rito celebrato in Calabria [Apollo Lumini, Le Farse di Carnevale in Calabria e Sicilia, 1888] o in altre regioni meridionali, come l’Abruzzo, la Puglia e la Basilicata. Il documento più antico in cui viene citato il Carnevale siciliano è un’Ordinanza del Capitan Giustiziere della Città di Palermo, datata 1° febbraio 1499, in cui veniva vietato di “giocare a Carnalivari con arangi, acqua e altro modo …” [Giuseppe Pitrè, Il Carnevale in Sicilia, 1892].
Poco conosciute sono le origini del Carnevale di Santa Lucia del Mela. Probabilmente, in origine, anche a Santa Lucia del Mela l’ultima sera di Carnevale, avvicinandosi la mezzanotte, un omaccione (Carnevale; Nannu, in molte zone siciliane), che aveva beneficiato di un breve periodo di consumo smodato di cibi e bevande, moriva, veniva disteso sul cataletto e accompagnato da un corteo funebre. Questo era attorniato da strepiti generali e dai pianti delle “cianci morti” (le prefiche, con il loro caratteristico pianto funebre detto rèpitu, trìulu o trìulata) e si concludeva con il rogo del fantoccio carnevalesco [Sergio Bonanzinga e Mario Sarica (a cura di), Tempo di Carnevale. Pratiche e contesti tradizionali in Sicilia, 2003].
In molti documenti custoditi nell’Archivio Storico Comunale sono presenti diverse notizie su questa festività popolare. I riferimenti maggiori riguardano soprattutto le imposte da pagare ai Giurati, per le quali gli allevatori dovevano rinunciare a parte del proprio bestiame, proprio durante il Carnevale (in questo caso “la carne da togliere” erano gli animali sacrificati ai governanti).
Il documento più antico che è stato analizzato, in cui viene nominata la festività del Carnevale, è il “Registro de’ Mandati - Città 1585-1586. Costituzioni”, tra i quali emerge un atto del 20 novembre 1585. In esso si stabilisce che: “tutti li patronj di capri (capre) digiano portarj le imposti dili chiaurellj (ciareddi = capretti) in questo Carnjlivàrj ad ragioni di dechj per cento (10%) et quelli vindiri ad rotulo a li metj dati et che daranno essi Magnifici Iurati …”. La stessa cosa valeva anche per “tutti patronj di porchj (maiali) che digiano fari le imposti di festa duranti cotesto di Carnilivari ad ragio di chjnco per cento (5%) et cussi li patrunj crastatj (castrati = agnelli) hagiano di fari le imposti di Carnjluari ad ragionj di dechj per cento (10%) et quelli vindiri a rotulo a le meti dati essi daranno per essi Magnifici Iurati …”.
Il Bando del 20 dicembre 1610 conferma per i “patronj di crapj le imposti di chiaurelli in questo Carnilivarj a ragione di dieci per cento (10%)”, mentre inverte quanto dovuto dai “patronj di porci” che dovevano “farj l’impostj ogni festa di Carnilivarj a ragione di dieci per cento (10%)” e dai “patronj di castratj” che dovevano “fari l’imposterj lo Carnjlivarj a ragione di cinco per cento (5%)”.
I successivi Bandi Ordinari della Città di Santa Lucia confermano le stesse imposte dovute da parte dei possessori cittadini e forestieri ai Giurati in occasione della “Festa di Carnovale”.
Il Bando Ordinario (27 maggio 1742) deliberava che “li padroni delli crapi e pecore ed altri animali d’armento, siano tenuti portare l’imposti, cioè li padroni di crapi, e pecori, a Natale e Carnevale e Pasqua, a ragione di dieci per cento, e quelli padroni delle vacche a Carnevale e Pentecoste a ragione di cinque per cento e questi vendere a rotolo alli meti saranno dati, et anco alle somme e quantità si stari a giuramento delli suddetti …”.
Il Bando Ordinario (9 giugno 1785), infine, stabiliva che “nel tempo di Carnavale” la stessa imposta dovesse essere corrisposta anche dai possessori delle capre a Carnevale e Pasqua (sempre nella misura del 10%), nonché dai proprietari delle vacche inutili a Carnevale e Pentecoste (nella misura del 5%).
Informazioni interessanti sulla ritualità, invece, possono essere desunte da un Regolamento di Polizia Urbana e Rurale della Città di Santa Lucia (30 luglio 1843), ove si dedicano al Carnevale ben 5 articoli.
Tralasciando le ammende, questi sono i punti salienti:

·         Ne’ tempi, e giorni ne’ quali son permesse le maschere dopo le ore ventiquattro nessun potrà girare mascherato nel Comune laddove l’autorità competente non avrà motivo a vietarlo, potranno di notte girare con abiti da maschera, ma col volto scoperto, e forniti di lume, ed in tal caso niuno potrà intromettersi con maschera in volto in qualunque abitazione, a meno ché uno della compagnia non si renda responsabile dei compagni, facendosi riconoscere dal padrone di casa.
·         Le maschere anche nei giorni, e nelle ore permesse, non dovranno insolentire, oltraggiare per mesto di brio alcuna persona, e dovranno anche tenersi lontane dalle Chiese aperte, ove si predica, o si esercita qualche uffizio di religione.
·         Le maschere non potranno indossare abiti di Ministri della Religione, di Magistrati, di funzionari pubblici, e di militari, usare maschere mostruose, e ributtanti.
·         È vietato alle maschere, ed a chicchessia di buttare sulle persone, o alla direzione delle finestre, e balconi, arangi, o altri corpi duri, o pure cenere, e crusca, e tutt’altro, che potessero offendere le persone. Si permette il solo uso di confetti, purché venghino gettati con decenza, ed in un modo di non recare danno, o offendere le persone.
·         Non son permesse le maschere così dette concertate, composte di molte persone, se non previa la licenza d’accordarsi dall’autorità di polizia in iscritto.

Da rimarcare il fatto che fosse permesso lanciare confetti in pubblico e che, evidentemente, ci fossero stati, tanto da vietarli espressamente, episodi spiacevoli di lancio di cenere, crusca e persino di arance (certamente di portata inferiore rispetto al celeberrimo Carnevale Storico di Ivrea e alla “Battaglia delle arance” che tuttora si rievoca).

U Catalettu” e le altre tradizioni popolari luciesi: testimonianze

Nel periodo della Seconda Guerra Mondiale, intorno al 1940, una caratteristica particolare della sfilata era la presenza di un carro che rappresentava un cavallo di legno con andatura claudicante. Tale struttura, che portava delle campanelle, veniva manovrata dal suo interno da un ragazzo e personificava il Carnevale.

Immagine tratta dalla Locandina della Manifestazione
“Ritorna dopo 40 anni … U Catalettu – Il Carnevale Storico Luciese”, Santa Lucia del Mela, Martedì 12 febbraio 2013
[Disegno di Santo Arizzi].

Durante il Carnevale del 1951, la sfilata assunse il carattere burlesco con atti di scherno persino personali, dovuti a un dissidio privato tra due dei più fervidi organizzatori.
Si trattava di Peppe detto Mannarinu (Giuseppe Interisano, detto “Mandarino” per una grossa cisti sulla nuca, un ex carabiniere in pensione) e Mastru Puliciotto (il sarto Santino Lombardo).
Al di sopra di un baldacchino, posto su un motocarro, fu portato un pupazzo vestito di carabiniere (caricatura di Mannarinu, con il frac della divisa con un’ala tagliata e con un vero mandarino posto sul collo), cucito e preparato dal sarto Lombardo.
Al di sopra di un asino fu portato un pupazzo che rappresentava il sarto, preparato dall’ex carabiniere che lo accompagnava con frasi di scherno per il lavoro del sarto che a dir suo non era capace di cucirsi nemmeno una coppola (berretta).
In questa occasione la sfilata partì dalle case dei due personaggi, ovvero dalla zona di Via Facciata, per passare dalla Chiesa dell’Annunziata e dalla Cattedrale. Il Percorso prese il via intorno alle 17:00 e si concluse intorno alle 20:00 quando il pupazzo di Mannarinu venne bruciato, poiché in tale occasione doveva rappresentare il Carnevale e la sua fine.
Dopo il 1955 la sfilata (corteo funebre goliardico) si svolgeva il martedì di Carnevale e partiva alle 15:00 per concludersi intorno alle 18:00. Il percorso passava da Piazza Milite Ignoto, Piazza Margherita (già Piazza Borgo), Chiesa dell’Annunziata, Cattedrale, per ritornare in Piazza Milite Ignoto.
L’atto iniziale si svolgeva in Piazza Milite Ignoto (Martedì Grasso) e consisteva nel Processo a Carnevale che veniva condannato da un Giudice per aver mangiato troppo (ingordigia). Così Carnevale doveva subire un intervento chirurgico per accorciargli l’intestino: un Dottore simulava l’operazione fingendo di tirargli fuori le interiora rappresentate dalla salsiccia. Ma purtroppo Carnevale moriva e doveva essere portato via con il Catalettu.
Fino al 1972, nell’ultimo giorno di Carnevale (Martedì Grasso), un finto corteo funebre (“Catalettu”) partiva intorno alle 23:00 (a volte, persino a mezzanotte) da Piazza Regina Margherita (già Piazza Borgo), arrivava alla Cattedrale e giungeva infine a Piazza Milite Ignoto, dove si concludeva intorno alle ore 00:30. In diverse occasioni, inoltre, il percorso del corteo partiva dalla Cattedrale e ritornava alla stessa.
Il caratteristico “Catalettu” si svolgeva tramite una finta barella composta da due persone che tenevano una scala con un fantoccio avvolto da un lenzuolo bianco (che rappresentava il corpo del Carnevale morto). Alla fine della scala (del Catalettu) emergeva la testa di un personaggio che simboleggiava il Carnevale morto: si trattava di una persona vera che teneva in bocca una fraviola (il dolce con farcitura di ricotta tipico del periodo di Carnevale).
Seguivano delle donne anziane (in realtà si trattava di uomini vestiti da donna) che piangevano il Carnevale che morto: le cosiddette Cianci motto (Piangi morto).
Poi vi era il Prete (o il Vescovo) accompagnato da un Sagrestano che portava un secchio pieno di acqua e una scopa di ginestra con la quale venivano benedetti (o meglio letteralmente bagnati) coloro che assistevano alla sfilata di carnevale.
Alcuni figuranti indossavano “u babbaianni”: una piccola spugna che veniva legata in vita con un laccio o un elastico. Questa era impregnata di farina o borotalco, posti all’interno di un sacchetto anch’esso legato in vita, e veniva gettata sugli abiti degli spettatori del corteo.
La sfilata era accompagnata da Musicanti che suonavano spesso la chitarra.
Intorno alle ore 00:30, raggiunta Piazza Milite Ignoto (o la Cattedrale), veniva bruciato un pupazzo di Cannaluari (rogo di Carnevale): finiva così, con la morte, il Carnevale. Successivamente le campane della Cattedrale (“u Campanazzu”) venivano suonate a morto (mortorio): era il caratteristico Suono del Cento, ovvero il suono di 100 rintocchi lamentosi.
In alcune edizioni che si concludevano in Piazza Milite Ignoto, si bruciava un Fantoccio che rappresentava Carnevale, venivano accese le ruote e le fiaccole per i giochi d’artificio e si bandiva una tavola per la “schiticchiata”, lo spuntino con dolci e cibi salati.
In alcuni casi, il Catalettu era, invece, seguito dal Carnevale moribondo (un personaggio ciondolante che camminava con una fraviola in bocca) che, durante una delle soste lungo il percorso della sfilata, subiva un intervento chirurgico per accorciargli l’intestino: un Dottore simulava l’operazione fingendo di tirargli fuori le interiora rappresentate dalla salsiccia.
Un altro aspetto caratteristico del periodo di Carnevale era anche il fatto che fino all’ultimo giorno di Carnevale si ballava di sera in diverse case private. Qui ci si presentava mascherati e una volta riconosciuti dai proprietari si poteva accedere e ballare.
Una ricorrenza molto sentita erano i Veglioni di Carnevale che si svolgevano solitamente dentro grandi sale: Cinema Apollo, Sala Olimpia, Villa Rosa. Qui si eleggevano le ragazze più belle, tramite concorsi alquanto coinvolgenti che portavano i titoli di “Reginetta dell’Anno” o “Miss Santa Lucia del Mela”, mentre meno frequenti erano le elezioni di “Miss Simpatia”, “Miss Eleganza”, “Miss Charme”, “Miss Polisportiva” (elette soltanto in alcune edizioni). Tra i vari organizzatori si distinsero: il “Circolo Culturale Antonio Scoppa” (fondato nel 1965) e il “Club Amici”.



Estratto di un articolo pubblicato dalla Gazzetta del Sud (domenica 15 febbraio 1970, pag. 6).


Inoltre, tra le persone mascherate vi era la presenza di due coppie, marito e moglie, che rappresentavano un altro tipico momento del Carnevale luciese: il cosiddetto “Sposaliziu”. Esso consisteva in una caratteristica sceneggiata farsesca di un finto matrimonio tra Carnevale e un uomo vestito da donna (di solito veniva celebrato la domenica di Carnevale).
Dal 1972 al 1977 le edizioni del Catalettu furono effettuate in maniera meno sfarzosa e coinvolgendo soltanto la parte bassa del Paese. Alcuni scherzi pesanti ed episodi spiacevoli portarono al definitivo abbandono del Catalettu, lasciando spazio alle edizioni in cui furono introdotte le forme più “commerciali e comuni” del Carnevale nazionale.
Tra i più importanti organizzatori del Catalettu si distinsero: il Sig. Salvatore Burrascano, detto Titta; il figlio del suddetto, già Ragioniere e Sindaco, Gaetano (Tanino) Burrascano; il Prof. Pasquale Ricca; il Sig. Antonino Sciotto. 
Da notare che nelle rappresentazioni teatrali, nei giochi e, in generale, in ogni forma di manifestazione ludica, i figuranti erano spesso uomini, persino nelle parti pertinenti alle donne (uomini vestiti e truccati da donna), e questo si protrasse fino al 1975.
Il Carnevale tipico luciese, i cosiddetti “Maschiri loddi” (poiché si riutilizzavano i vestiti popolari e non erano impiegati costumi preparati ad hoc), si protrasse fino al 1977 e poi assunse un carattere molto più commerciale, con i vestiti delle maschere italiane più note e con il coinvolgimento anche dei bambini e delle loro famiglie.
L’unica testimonianza scritta del Catalettu, nonché descrizione eccellente in dialetto luciese, è quella pubblicata dal Prof. Mimmo Cirino (Salappa ed altri racconti della Valle del Mela, Santa Lucia del Mela, a cura dell’Associazione Culturale Piccolo Teatro, 1983):

«U’ Càtalèttu nèsci à mènzanòtti e fa ù gìru d’ù paìsi. Caminanu avànti ì piccirìddi di màschira vistùti, ‘cù tòrci e tricchi / tràcchi. Quàttru màscaràti tènunu ì pizza d’ùn linzòlu ntà nà mànu e ‘cù l’autra jèttanu pubbirìgghia chi pìgghianu ntà ‘nà sàcchìna c’hànnu davànti; n’àutri dùi surrèggiunu nà scàla; ntò mènzu, d’ùn pùrtùsu ntò linzòlu jàncu, nèsci à tèsta di Pèppi ù mòttu. Hjàvi davànti ùn pìattu di fràviòli e ù càpubànna cì fùdda ntà bbùcca. P’àccussì ddà fàcci jànca dù bàrbirèddu mòtt’ ì fàmi pìgghia culùri sùtt’ à farina chi ci jèttanu di sùpra. Arrèri vènunu nà manìata di màrpagghiùni, chi s’hànn’ àsciàlàtu ntà mègghiu sàla e ad ògni càntunèra cì fànnu ù prùcessu e cì càntunu ù mìsarèri.».

Lo stesso autore ci ricorda che il Carnevale luciese iniziasse per la Festa di San Biagio (3 febbraio), con le numerose serate di ballo. Noto è il detto: «Ppì Sàn Bràsi, Càrnalivàri tràsi».
Da ricordare, inoltre, che il termine Catalettu è spesso associato alla “Vara del Cristo Morto” nella Processione del Venerdì Santo o alla “barella” che serviva per trasportare il morto o l’ammalato. Caratteristico è il proverbio siciliano: “lu Catalettu fa acquistari intellettu” [Antonino Traina, Nuovo Vocabolario Siciliano - Italiano, 1868].
Il “Catalettu”, spesso organizzato dalle persone più abbienti, non era l’unica manifestazione popolare luciese. Una consuetudine fu anche quella che si perpetuò fino al 1982, soprattutto nella parte bassa del Paese (tra la Piazza Milite Ignoto e la Contrada Serri), ovvero dei Pupazzi di Carnevale abbandonati dietro le porte delle case (e in alcuni casi anche sui balconi) nella notte del Martedì Grasso. Chi si svegliava, il Mercoledì delle Ceneri, con tale fantoccio dietro la propria abitazione veniva schernito per tutto l’anno. In molti casi i fantocci furono più di uno.
Il Carnevale a Santa Lucia del Mela, spesso, veniva persino considerato come la “vera festa” per il popolo, ove il ballo e il cibo erano i protagonisti.
Successivamente, le sfilate e i concorsi in maschera per bambini, solitamente tenuti nella Chiesa di Santa Maria dell’Arco, divennero le nuove rappresentazioni del Carnevale luciese.
Inoltre, tipiche espressioni del passato erano quelle che seguivano al Mercoledì delle Ceneri (ovvero il giorno dopo la fine di Carnevale) quando non si doveva “cammariari”, cioè “non si potevano mangiare cibi grassi o carne”, e non si potevano fare scherzi, come ricordato da un antico detto locale: “Lécina, non schizzari cchiù chi è Quoraesima!” (si diceva a una “persona insistente che non deve scherzare più poiché si è entrati nel periodo di Quaresima”).

Fonti: Testimonianza di Franco Ragusa di anni 87 nel 2011; Testimonianza di Angelo Abbriano di anni 73 nel 2011; Testimonianza di Giuseppe Teatino di anni 100 nel 2012; Testimonianza di Giuseppa Carauddo di anni 82 nel 2012; Testimonianza di Salvatore Impalà di anni 82 nel 2012.



Esempi di Manifestazioni carnevalesche correlate

Altre rappresentazioni recenti del Carnevale con il “Catalettu”, simili a quello di Santa Lucia del Mela, sono state realizzate in alcuni quartieri di Messina e nell’Oratorio dei Salesiani (Chiesa di San Giovanni Bosco) di Barcellona Pozzo di Gotto.
Attualmente in Calabria, nel centro di San Costantino (frazione del Comune di Briatico, in Provincia di Vibo Valentia), si rievoca l’antica tradizione del Processo, del Catalettu e del Rogo di Carnevale, proprio durante la serata del Martedì Grasso (fine del Carnevale e inizio della Quaresima). Nel 2007, infatti, è stato recuperato (tramite l’Associazione Culturale Eleutherìa) il Carnevale di San Costantino di Briatico, dopo un’interruzione avvenuta nel 1949. Il rito è stato arricchito dalla messa in scena della farsa “U processu a Carnalavari”, liberamente tratta dal poemetto in vernacolo del 1930 dal titolo “Discurzu a Carnalavari” di Grazioso Garrì (autore del poemetto curato dal figlio Giuseppe Garrì).

In questa comunità tutti gli elementi teatrali e simbolici non fanno altro che evidenziare la condizione sociale del gruppo, gli aspetti rituali legati al mondo arcaico e agropastorale di propiziazione, di difesa del territorio e del raccolto, degli animali e anche di una sorta di difesa ed eliminazione del male attraverso forme apotropaiche di gestualità rituale. A San Costantino il mesto corteo di bianchi confratelli incappucciati, che a tratti è diventato festoso, ha segnato al buio, con la sua ambigua e irreale presenza, tutto il territorio paesano attraverso un itinerario, tra le vie, nelle piazze, nei vicoli dove la farsa, l’elogio, il lamento funebre ha esorcizzato e protetto mentre un uomo incappucciato di nero bandiva un infuocato incensiere fumante di vapori di peperoncini piccanti incendiati.” [Franco Vallone, La farsa di Carnevale a San Costantino di Briatico. Una tradizione recuperata dagli anni Trenta, 2008].

Inoltre, un documento storico molto importante è rappresentato dal documentario in 16 millimetri colore, “La morte di Carnevale”, realizzato dall’etnologo Vito Teti nel 1979 (con la collaborazione scientifica dell’antropologo briaticese Luigi Maria Lombardi Satriani) per la sede calabrese di Rai Tre. Nel paese di San Nicola da Crissa, sempre nel vibonese, viene ripresa la festa come spazio della protesta, della denuncia sociale, del ribaltamento dei ruoli. “I temi della fame e dell’abbondanza alimentare, della morte per fame e per eccesso alimentare. La farsa come forma di teatro popolare e il corteo funebre come tentativo di controllo rituale del paese. Il riso che esorcizza e annulla la morte; il pianto come parodia della liturgia ecclesiastica; le maschere e i simboli propiziatori; il fantoccio bruciato come capro espiatorio e autopurificazione della comunità. Protagonisti sono gli emigranti e giovani, i quali si accostano alla tradizione recuperandola e modificandola.” [Gianfranco Donadio, La morte di Carnevale, 2011].
La Calabria e soprattutto i suoi centri agricoli e montani rispecchiano la stessa tradizione del Carnevale celebrato negli altri paesi meridionali e siciliani. In molte località veniva ammazzato il maiale, venivano consumati i prodotti che da esso si ricavavano, e colui che raffigurava Carnevale era solito accaparrarsi di tutto il cibo e delle bevande a disposizione. Successivamente era processato da un tribunale, condannato e arso vivo per espiare le sue colpe [Raffaele Ranieri, Antiche tradizioni che vanno scomparendo. Don Carnevale in Calabria, Gazzetta del Sud, sabato 19 febbraio 1977].
Persino alcune strofe della celebre canzone sul Carnevale, del cantastorie calabrese Otello Profazio, risultano essere presenti nella tradizione di Santa Lucia del Mela: “Carnalivari murìu di notti e lassàu quattru ricotti, ddu frischi e ddu salati, pi li fimmini maritati … ddu frischi e ddu stantivi pi li povari cattivi; ddu frischi e ddu nchianati pi li povari carciarati … Cannalivari di ccà passàu e a nissunu cunsulàu …” [notizia fornita dal Prof. Mimmo Cirino di Santa Lucia del Mela].

“Cannaluvarata” di Angelo Sfacteria
(AA.VV., 6° Carnevale Messinese - Suppl. al n. 34 di Panorama, 23 marzo 1960).


Il Territorio di Milazzo, nello specifico la Città, è inoltre associato a un curioso stramotto (poesia popolare carnascialesca), composto da Mastro Natale Lo Gatto e recitato durante il Carnevale di Chiaramonte Gulfi (RG) nel 1667, in cui venivano dati appellativi di scherno a numerosi centri abitati della Sicilia: i milazzesi erano chiamati “mancia surci” (mangia topi; in realtà sembra che alcuni mangiassero i cagnolini) [Serafino Amabile Guastella, L’antico Carnevale della Contea di Modica, 1973].


Idee per la valorizzazione del Carnevale luciese

Certi di aver perso irrimediabilmente numerose notizie sulle tradizioni popolari, si è sempre più consapevoli dell’importanza della conservazione della memoria storica per conoscere gli eventi di un passato in cui bastava poco per divertirsi, fatto di sacrifici e privazioni, nel quale il Carnevale spesso rappresentava l’unico periodo in cui era possibile poter mettere da parte le proprie preoccupazioni quotidiane e persino lo “status sociale” di appartenenza, nonostante in molti casi vi fossero diversi modi per festeggiare.
Conoscere le feste e le tradizioni di un popolo, conservarle e tramandarle, diventa per noi la vera scommessa per il presente, nel quale a volte non occorre necessariamente “inventarsi la ricorrenza” ma riscoprire le proprie radici, saper ascoltare chi ci ha preceduti e rispettare con orgoglio determinate ritualità.
Il Carnevale Storico di Santa Lucia del Mela (“U Catalettu”) potrebbe essere considerato tra i Beni Culturali Immateriali della Regione Siciliana, che sono così definiti: “le pratiche, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, le abilità – così come gli strumenti, gli oggetti, gli artefatti e gli spazi culturali ad essi associati – che comunità, gruppi e, in certi casi, individui riconoscono come parte del loro patrimonio culturale. Questo patrimonio culturale, trasmesso di generazione in generazione, è costantemente rigenerato da comunità e gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e la loro storia, e procura loro un senso di identità e continuità, promuovendo così rispetto per la diversità culturale e la creatività umana”.
Lo stesso Carnevale luciese potrebbe, quindi, essere incluso tra i Carnevali Storici più importanti della Sicilia [Biagio Bonanno (a cura di), La festa delle identità. Carnevali Storici di Sicilia, 2006]. Attualmente, in Provincia di Messina, risultano essere molto caratteristici e suggestivi le seguenti rievocazioni storiche: Novara di Sicilia (con il tipico “Gioco del Maiorchino” e la “Lenzuolata”), Rodì Milici (“I Mesi dell’Anno”), Cattafi - San Filippo del Mela (“U Scacciuni”), Saponara (“La Sfilata dell’Orso e della Corte Principesca”).
Senza azzardare sogni utopistici, il Carnevale luciese potrebbe essere considerato, per la sua tradizione e per la sua rilevanza storico-culturale da salvaguardare, tra i Capolavori del Patrimonio Orale e Immateriale dell’Umanità (UNESCO), dopo l’alto riconoscimento della Commissione Nazionale UNESCO del Ministero degli Affari Esteri (secondo un’ipotesi avanzata dal Prof. Mimmo Cirino di Santa Lucia del Mela).  Essa si occupa di “favorire i governi locali e le agenzie non governative a identificare, salvaguardare, promuovere e valorizzare il proprio Patrimonio Culturale Immateriale, così come le comunità e i gruppi a farsi compartecipi della gestione e della salvaguardia”. Le Proclamazioni della Commissione hanno interessato “peculiari espressioni culturali, come i carnevali, i canti, le forme di teatro e gli spazi culturali nei quali avvengono attività come i mercati, gli scambi, i riti, gli eventi festivi”.
Sarebbe un onore riuscire a ottenere il riconoscimento tra i Capolavori italiani del Patrimonio Orale e Immateriale dell’Umanità, tra i quali attualmente ci sono Beni Culturali Immateriali di grandissima rilevanza nazionale: Il teatro delle Marionette Siciliane. Opera dei Pupi (iscritto il 18 maggio 2001) e il Canto a Tenore dei Pastori del centro della Barbagia (iscritto il 25 novembre 2005).

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