La scuola rossa |
Tiziana Parisi - E’ appena cominciato un nuovo anno scolastico. Bambini e ragazzi, muniti di zaini e di tutto ciò che
offre la moderna tecnologia in materia di comunicazione, si recano nelle varie sedi scolastiche a bordo di diversi mezzi di locomozione. Alcuni prendono l’autobus, quelli più grandi preferiscono usare il motorino, altri ancora vengono accompagnati dai genitori con l’automobile. Chissà se gli studenti di oggi immaginano come si svolgesse l’anno scolastico in una scuola sita sui Peloritani, nell’immediato dopoguerra.
Si tratta della scuola di C/da Forno, a cui si può giungere passando da Marmureri e proseguendo in direzione del torrente Mela, oppure risalendo lungo il corso di quest’ultimo.
Lasciata l’auto e attraversati vari sentieri in preda alla più selvaggia vegetazione, si giunge finalmente a ciò che resta di essa, cioè un rudere avvolto da rovi e da piante rampicanti, che lasciano vedere parzialmente il vecchio intonaco di colore rossastro della facciata. Era questa, dunque, la tonalità di colore che accoglieva gli alunni al loro arrivo, dopo aver percorso a piedi, spesso scalzi, tragitti più o meno lunghi. Molti interrompevano l’attività lavorativa nei campi o appresso alle greggi, cominciata all’alba, per poi riprenderla al loro ritorno. Il tempo per studiare bisognava ricavarselo con la buona volontà, poiché la priorità era aiutare la famiglia ad assicurarsi il sostentamento.
Ma i maestri e le maestre questo lo sapevano bene; conoscevano bene le famiglie dei ragazzi, in quanto venivano da esse ospitati quando arrivavano a Forno la domenica pomeriggio in groppa ad un asino, carico di viveri, tramite un viaggio della durata di circa 4 ore a partire dal paese, per poi riandarsene il sabato. Era questa la loro routine, dall’autunno all’estate.
La scuola, dal soffitto ormai quasi totalmente crollato, si eleva su 2 livelli; al pianoterra vi sono 2 locali, che venivano adibiti a caserma, in cui si nota una mangiatoia per i cavalli usati dalle guardie, e la vera e propria cella di detenzione, mentre al primo piano si svolgeva l’attività didattica.
Guardando dal pianoterra attraverso la voragine originata dal crollo del tetto, si può notare che le pareti dell’aula erano di colore azzurro chiaro. Era inoltre dotata di bagno, raro per l’epoca, e di caminetto, alimentato dalla legna portata dai bambini stessi. Fino all’anno scorso vi erano anche alcuni banchi di legno, dotati di apposita cavità per contenere penna e calamaio, oggi però scomparsi, ed una bambola dai capelli biondi.
Vi era un’unica classe, che raccoglieva bambini di varie età, affidati tutti ad un unico insegnante.
Dei maestri che hanno prestato servizio in questa scuola di montagna, alcuni hanno anche insegnato nelle scuole elementari di S. Lucia del Mela, tra i quali la maestra di chi scrive.
Di fronte alla scuola vi è un campo in passato coltivato a granturco, in cui, fino a poco tempo fa, chi lo curava aveva sistemato un pittoresco spaventapasseri; adesso anche quello è scomparso, forse a causa delle intemperie.
Una scuola rurale in una società rurale. Venne abbandonata, così come il villaggio circostante, che comprendeva originariamente una cinquantina di famiglie, dopo gli anni Sessanta, quando la popolazione si rese conto che quel territorio ormai non rispondeva più alle nuove esigenze sopraggiunte con l’arrivo del progresso, e cominciò a trasferirsi in paese.
Oggi la scuola di C/da Forno rappresenta una possibile meta da raggiungere durante una gita fuori porta, per chi volesse godere di ameni paesaggi e ripercorrere con la mente un pezzo della nostra storia sociale, da cui S. Lucia del Mela trae in gran parte le sue origini.